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Durante una mia visita a Firenze, in una giornata ventosa e fredda che ho dovuto persino acquistare una sciarpa nonostante fosse maggio, ripararsi dalle intemperie in un museo è la scelta migliore che si possa fare, si ha la scusa per rimanere nelle sale per buona parte del giorno senza che gli eventuali accompagnatori mostrino segni di impazienza.

Questo permette di ammirare con calma le opere esposte, sia quelle che si conoscono solo tramite riproduzioni pubblicate su libri sia altre di cui si ignorava l’esistenza, ponendo attenzione alle opere considerate capolavori ma anche a quelle classificate come “minori”: in un museo come quello dell’Opera del Duomo di Firenze ci si potrebbe accampare per settimane talmente sono tante le opere che meritano di essere osservate con calma.

Questa premessa, insolita in una scheda critica di un’opera d’arte, ha lo scopo di introdurre gradatamente il lettore nella sala dove è esposta la Pietà Bandini, considerata la penultima scultura di Michelangelo, nel tentativo – impossibile in realtà – di indurre la stessa emozione provata allorché varcai la soglia di questa sala.

 

Avevo già ammirato diverse opere d’arte soffermandomi su ciascuna pieno di stupore (fortunatamente riesco ancora a stupirmi davanti alla bellezza!), sapevo che ne avrei incontrate molte altre quel giorno ma non mi aspettavo di trovarmi di fronte a una di essa, quasi all’improvviso, che mi facesse depennare in un sol colpo tutto ciò che era avvenuto prima di varcare la soglia della sala che ospitava la grande scultura incompiuta di Michelangelo.

Iniziata intorno al 1546-1547 e concepita per una chiesa romana dove l’autore pensava di essere sepolto, mutilata nel 1555 dallo stesso Michelangelo, fu in seguito ricomposta e restaurata da Tiberio Calcagni, allievo di Michelangelo, che incluse Maria Maddalena alla sinistra, purtroppo di proporzioni non adeguate e di qualità nettamente inferiore al resto dell’opera.

Successivamente acquistata dallo scultore e architetto Francesco Bandini (da cui il nome di Pietà Bandini), nel 1671 passò a Cosimo III de’ Medici, Granduca della Toscana, che la collocò nei sotterranei della Basilica di San Lorenzo, luogo di sepoltura dei Medici, per poi essere trasferita nel 1722 nel Duomo, Santa Maria del Fiore, e nel 1933 posta definitivamente nel Museo dell’Opera del Duomo.

Per questa Pietà, a cui Michelangelo lavorò sporadicamente in quanto non commissionata ma creata per se stesso, impiegò probabilmente un blocco di marmo scartato – forse perché non di buona qualità – tra quelli utilizzati per la tomba di Giulio II, blocco menzionato dal Vasari come pieno di impurezze e talmente duro da lavorare che a contatto con lo scalpello produceva scintille.

L’impianto scenico dell’opera risente del periodo storico della sua lavorazione che è quello dei primi anni del Concilio di Trento, dove viene rimarcata la figura predominante del Cristo e il fatto che durante la Messa il corpo del Salvatore è realmente presente.

Infatti, a differenza di altre Pietà scolpite da Michelangelo – pensiamo a quella più famosa, la Pietà vaticana – in questa viene messo in notevole risalto tutto il “peso” del corpo, un tentativo di rendere maggiormente la “fisicità” del Cristo, e la conseguente fatica di Nicodemo – il cui volto è l’autoritratto di Michelangelo stesso – che lo sorregge con evidente difficoltà.

Se i volti delle figure sono sereni, come di accettazione della morte, sono le torsioni dei corpi che trasmettono la drammaticità del momento, il Cristo pare scivolare via dalle braccia che lo sorreggono, quasi a confermare che non è possibile bloccare il tempo che scorre via.

Sono gli anni della vecchiaia di Michelangelo, ha circa 75 anni che a quell’epoca era un’età venerabile, non molti la raggiungevano, quindi senz’altro i suoi pensieri riguardo il fine vita dovevano pur influenzare il suo lavoro, la sua arte.

Sempre il Vasari, a cui dobbiamo molte preziose informazioni dell’epoca – e anche diversi pettegolezzi – suggerisce tre motivi che spinsero Michelangelo a distruggere il proprio lavoro: la durezza e le impurità del blocco di marmo, l’insoddisfazione dell’artista se non vedeva la perfezione nascere dalle sue mani, e l’assillante insistenza di un servitore che lo incitava a terminare l’opera: il risultato di questo momento di sconforto fu la gamba sinistra del Cristo scalpellata via dopo esser stata scolpita, le braccia delle figure spezzate e vistose abrasioni su gomiti, petto e spalle.

Muoversi intorno a questa opera incompiuta e sofferta, osservare da vicino i solchi dei colpi di scalpello visibili sul retro, soffermarsi sul volto di Nicodemo/Michelangelo così da cogliere il suo sguardo, avvertire la torsione e lo sforzo dei corpi che sorreggono il Cristo… è un qualcosa di impagabile, sembra di percepire ancora il rumore sordo dei colpi di scalpello sul marmo in sintonia con il respiro affannato del grande Michelangelo nel suo tentativo di estrarre i corpi imprigionati nella pietra.

Marco Mattiuzzi 

Gruppo Facebook “Pillole d’Arte”

2 Comments

  • Serena
    Posted 20 Ottobre 2019 20:24 0Likes

    Il mio parere è grazie infinite delle notizie sull’opera e di tutto quel dipiù che mi ha trasmesso un fortissimo desiderio di vederla dal vero.

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