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Avevo già scritto sull’opera Dedalo e Icaro di Antonio Canova, desidero ritornarci in quanto questa volta l’ho fotografata personalmente durante la mia recente visita al Museo Correr di Venezia.

Quando si parla di arte bisognerebbe mai dimenticare che non si deve tralasciare di esprimere le proprie sensazioni, la descrizione e l’analisi di un’opera dal lato stilistico, storico e concettuale sono senz’altro interessanti e aiutano a comprendere cosa abbiamo sotto gli occhi, ma quello che tocca le corde dell’animo non è meno importante di una critica dotta.

Riprendo quindi parzialmente il testo descrittivo del mio precedente articolo, ampliando la parte che potrei definire emotiva, quella che ti lascia incantato e che ad alcuni procura lo smarrimento definito Sindrome di Stendhal.

Dedalo e Icaro” è una delle prime opere di Antonio Canova (1757-1822), su committenza del senatore Pietro Pisani: la scolpì nel 1779 a soli 22 anni, ma nonostante questo sembra già un’opera della maturità dell’artista.

Il mito di Dedalo e Icaro, padre e figlio, racconta che per fuggire dalla propria prigione decisero di fabbricarsi delle ali di penne, tenute insieme dalla cera, con le quali volare via: sciaguratamente l’entusiasmo di Icaro lo portò a innalzarsi troppo vicino al sole che causò lo scioglimento della cera e così privato delle ali precipitò in mare morendo.

Canova utilizza questo mito per creare un’opera che trasmetta la sua gratitudine verso il nonno, ritratto in Dedalo colto nell’atto di mettere le ali a Icaro, alias Canova stesso da giovinetto che a causa della morte prematura del padre fu allevato dall’età di quattro anni dal nonno.

Un omaggio quindi a chi gli “mise le ali” insegnandogli dapprima il mestiere di scalpellino e successivamente permettendogli di studiare come scultore, così da farlo “volare” come artista.

Sebbene non tutti concordano con questa analisi, asserendo che il nonno non era affatto felice di vedersi privato di un lavorante nella sua bottega da scalpellino, ma anche se forse a malincuore accettò il suo allontanamento va rimarcato il fatto che, pur essendo in ristrettezze economiche, vendette persino un suo terreno per permettere il mantenimento degli studi del nipote a Venezia. Quindi si può supporre che alla fine non vi furono attriti tra loro e che il nonno favorì – magari brontolando come fanno i nonni che vedono allontanarsi un nipote – il “volo” del giovane Antonio.

Trovarsi davanti a quest’opera durante la visita al Museo Correr è un’emozione che difficilmente si riesce a trasmettere con uno scritto, vi è nell’espressione dei due personaggi la sintesi di una vita, magari chi vi è davanti vede riflesse le proprie esperienze, le proprie aspettative o delusioni.

La concentrazione di Dedalo mentre fissa le ali a Icaro è evidente dallo sguardo, dalla fronte corrucciata e le labbra serrate, è consapevole che dipenderà da lui una vita e quindi deve agire al meglio; Icaro invece ha la spensieratezza del ragazzino, per lui è un gioco, una esperienza che lo attira e ne pregusta il piacere.

La nudità di Icaro è paragonabile a quella della larva prima di trasformarsi in farfalla, una nudità antica intesa come presa di coscienza della propria corporeità: il corpo eretto ma rilassato, leggermente arcuato indietro, lo sguardo che sa di sfrontato nella sua serenità, è contrapposto al corpo curvo di Dedalo che ne trasmette tutta l’angoscia del momento in contrasto con l’abbandono fiducioso che la posa di Icaro suggerisce.

Un’opera che mi ha sempre emozionato, da notare che Canova ha posto le due figure ai limiti della base, lasciando un vuoto al centro come per evidenziare le due età, quella matura e quella adolescenziale, il cui abbraccio di Dedalo a Icaro è un insieme di tenerezza e protezione.

E stupisce anche il fatto che Canova l’abbia realizza a soli 22 anni!

Marco Mattiuzzi – 21/01/2019

Gruppo Facebook “Pillole d’Arte”

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